
L’universo in terracotta colorata di Kazumasa Mizokami
Paolo Campiglio
Ogni uomo vive nel presente ma ha in sé un passato molto antico. Talvolta questo passato è invisibile e rimane nascosto; talvolta, invece, affiora nei nostri atti e nel modo di pensare. Kazumasa da molti anni vive in Italia, a Milano, lavora in uno studio ricavato proprio all’interno di una vecchia fornace tradizionale: qui, al riparo dal caos della metropoli, realizza le sue ceramiche, libera la sua immaginazione fantastica, progetta, inventa sempre nuove creazioni plastiche. Ma una parte della sua anima è in Giappone e nelle sue mani, nei suoi piccoli gesti, traspare l’ombra delle cave di caolino di Arita e della porcellana Imari, i gesti di una tradizione millenaria. In lui il passato diventa presente ogni giorno. Ogni giorno per Kazumasa significa non solo un giorno nuovo, ma una segreta preghiera alla vita: è il suo Calendario a dimostrarlo, i Dodici giorni in un anno un lavoro che l’artista conduce da molto tempo, come un esercizio di concentrazione quotidiano, e che nel progetto ideale dovrebbe contemplare una ceramica creata ogni giorno, per un anno. Il Calendario di 356 ceramiche è in realtà un work in progress in cui è evidente l’analogia con l’impegno quotidiano dell’antico ceramista giapponese: il rito della ceramica, la moltiplicazione della forma apparentemente uguale a se stessa, simile a quella del giorno prima, ma in realtà unica. Ma Kazumasa ha assimilato anche il concetto moderno di scultura in ceramica, che in Italia ha dei precursori di alto livello nel novecento, tra i quali, Lucio Fontana e Fausto Melotti: la loro preoccupazione principale era innanzitutto la forma, il connubio inscindibile tra forma e colore: approdati a una forma nuova gli scultori ceramisti tendono a ripeterla, variandola, come rito quotidiano o solo per assicurarsi che quella forma non rappresenti solo un modo per occupare lo spazio ma abbia una sua continuità nel tempo, nella moltiplicazione del motivo, ovvero nella sua lenta e inesorabile trasformazione. Questo concetto di dilatazione temporale del gesto del ceramista è ben presente in Kazumasa che ha scoperto una forma particolare, congeniale alla sua sensibilità di artista, cioè il motivo dei fiori sbocciati. I fiori sono così vicini uno all’altro da formare una texture, più piccoli rispetto alla dimensione reale, o più grandi, dai colori irreali, fluorescenti e astratti: è un motivo di scultura iscritto in un quadrato, come in Labirinto rosso (2022), in un cerchio, come in Gocce di primavera (2019), o in una sequenza di tanti rettangoli sulla parete, come tante piccole finestre (Dodici giorni in un anno). Le sue sequenze di fiori sono come istantanee della vita di noi tutti, in un determinato giorno dell’anno, istantanee che riprendono una molteplicità di soggetti, apparentemente simili, in realtà uno diverso dall’altro. I fiori sono una metafora della molteplicità statistica di un campione di individui. Tra i critici e gli storici dell’arte che hanno scritto sul suo lavoro, Elena Pontiggia ha affermato che si tratta, quasi, di “pitture” e non di sculture colorate, riferendosi alla tradizione pittorica occidentale della “Natura morta”. Il riferimento alla pittura è una componente importante , ma la natura intenzionalmente artificiale di Kazumasa è anche, soprattutto, un’ipotesi di forma,non solo di colore, che traduce il desiderio di ogni uomo di avere con sé, in ogni momento, un’icona della bellezza e di poterla toccare con le mani in quella segreta preghiera della contemplazione. Nelle sculture recenti come La luna che segna il tempo (2023) i fiori diventano infatti pure forme geometriche, come già in 15 ottobre (Calendario, 2014). L’approccio di Kazumasa è vicino a quello dell’artista italiano Piero Gilardi che a metà degli anni Sessanta creò delle immaginarie “nature morte” in scultura servendosi dellagommapiuma da imballaggio, dai colori irreali e magici, che si possono appendere a parete come un quadro. Il suo fine era denunciare, molto in anticipo rispetto ai movimenti ecologici, come la società italiana del boom economico degli anni sessanta si fosse allontanatadefinitivamente da una prospettiva di dialogo con il mondo naturale. Come Gilardi anche Kazumasa agisce sul desiderio inconscio della società contemporanea di una comunione con la natura, che ha perduto. Kazumasa ha compreso che rappresentare la bellezza, in particolare una super- bellezza, super- colorata, significa rendersi conto che la natura in sé è oggi una specie di sogno nella vita quotidiana della metropoli. Si può solo sognare un mondo fiorito, ma non più vedere o contemplare dal vero. Quindi ci si deve basare sulle immagini della natura che i media globali ci offrono, dalle foto digitali sul web, ai social. L’idea contemporanea di natura è un’immagine talmente soft, così trascurabile, quanto impressionante. La massificazione e globalizzazione dell’immagine della natura spinge l’artista a creare una super-realtà, in un modo non molto diverso dalle famose “zucche” di Yayoi Kusama, che sono metafore della condizione femminile, donne –zucche trasformate in chiave glamour. Il motivo a texture può generare, nella sua complessità, una composizione più figurativa, che allude al concetto di amore, in senso assoluto, come nell’opera La terra vista dalla luna (2023), che rappresenta il pianeta azzurro in cui si nasconde la raffigurazione di una madre con il bambino, il motivo classico della Maternità. Questo tema è declinato anche nell’opera Luce della Luna (2022) in cui è più evidente il riferimento alla coppia, l’uomo e la donna, come origine della vita. Tra le sue predilezioni artistiche, Kazumasa dimostra una particolare passione per l’arteitaliana degli anni Ottanta: un’eco dei motivi “stellari” di Nicola De Maria ricorre nei suoi disegni colorati; le figure umane semplificate di Mimmo Paladino, lo attraggono e come lui Kazumasa ama il riferimento alla poetica del “realismo magico” , alla cultura italiana degli anni Trenta, che è tipico degli anni Ottanta del novecento. Ma a differenza di Paladino, l’artista non sembra interessato al riferimento a culture primitive, africane o alla componente “etnica”, riferita alla cultura del Mediterraneo. Gli interessa, invece, il recupero della silouhette della figura umana senza aggettivi, l’uomo o labdonna, nella serie dell’ Uomo blu e in altre recenti sculture: tale figura umana, blu secondo la tradizione contemporanea che parte da Yves Klein, gli permette di riflettere sui grandi temi: la solitudine, il sogno, la condizione dell’uomo contemporaneo. Non è un caso che questo “uomo blu”, che siamo noi, sia un uomo seduto. Ammette Kazumasa: “la vita della società contemporanea è fondamentalmente sedentaria”. L’uomo è quindi seduto, e da quella posizione immagina, crea, pensa. Il mondo della creazione, del sogno, o anche dell’impegno in qualcosa che lo occupa è rappresentato da una bianca sfera leggera, in materiale plastico, con cui l’uomo blu si rapporta. L’installazione Uomo blu rappresenta un’istantanea della molteplicità dei gesti e dei pensieri dell’uomo contemporaneo, nella sua solitudine. L’uomo è blu perché è come una presenza fatta soprattutto di aria, non di corpo e come tale egli è vicino a delle “nuvole al tramonto”, rosse, che lo circondano. Come a ribadire che l’uomo contemporaneo, meditativo, sedentario, in attesa del futuro, o impegnato nella creazione, si allontana sempre di più dalla fisicità del corpo e della materia. La stessa società contemporanea, in effetti, si va allontanando da tutto ciò che è materia concreta, per esempio la terra, l’acqua, preferendo agli elementi reali un sostituto astratto. La magia che circonda le cose, il mistero della vita, la luce della luna e la sua presenza, il tema dell’amore che ha generato il mondo, ma anche la magia della solitudine di fronte al cosmo, alle stelle, lo stupore di fronte al mistero della natura sono i grandi temi che Kazumasa sente nella sua anima di artista giapponese trapiantato in Italia e cerca ogni giorno di esprimere con una limpida e pura sensibilità, non viziata dalle tendenze e dalle mode.